Si danno la corsa le parole per raccontare il mare.
Il mare lo impari ogni giorno anche se ci sei nato in mezzo.
Da Napoli dovevamo andare via. Papà mi disse che girava mal’aria. Secondo lui era colpa di queste navi che venivano dall’oriente ed era meglio se per un po’ me ne andavo da zia Macolatina a Procida a farle un poco compagnia.
Zia l’avevo vista poche volte. Era la sorella di papà che da Sant’Anna e Paludi era finita sull’isola sposata a un pescatore. Questo zio pescatore lavorava su una barca inglese e spesso stava fuori per tanti giorni. E quasi non me lo ricordo. Vivevano vicino al faro.
Papà mi mise sulla barca con un pacco di frutta secca, una bottiglia di vino, conserve di pelati San Marzano, fatti la settimana prima a Sant’Anna, un caciocavallo e quattro spicci che gli aveva dato masto Ciccio il ferraro anche se non era giorno di paga. E un sacco di raccomandazioni “m’ arraccumann’ a’cchest…m’arraccumann’ a’ cchell…” e mi guardava spostando piano piano il volto da un lato come a dire ti tengo d’occhio pure da qua. Che io poi gli volevo dire che si poteva stare tranquillo che brutte figure non gliene facevo fare. Ma a papà non si poteva rispondere. Giusto signor si, signor no. Che lui teneva sempre da fare e discussioni non ne voleva.
Fra le tante cose vietate, papà non voleva che andavo a vedere il faro. E più lui non voleva più il faro chiamava. Ma non lo vidi subito. Solo diversi giorni dopo essere arrivata. E per fortuna.
Quando arrivammo sull’isola era pomeriggio tardi. Io fui affidata a un marinaio sulla barca. Mi posò accanto alle borse e a poppa. Prendevo il vento da ogni lato. Volevo stare in un posto che vedevo papà fin quando non partivo ma non potevo lasciar da sole le borse e stetti ferma dove stavo, immaginando papà che diventava sempre più piccolo.
Una sola mano agitata fra una striscia di terra e una di cielo. E fu meglio così che a vederlo piangere, anche se poco poco, non ci tenevo proprio.
Quando vidi Procida pensai a un giardino. Un’allegria di case sbocciate dalla roccia.
La casa di zia Immacolatina era più in alto della marina grande dove arrivai. Venne a prendermi con Libera, l’asina di zi’ Peppe, vicino di orto.
Liber,a la via la sapeva a memoria e per quanto la si potesse portare a sperdere, in mezzo ai vichi e vicarielli, stai sicuro che ti lasciava sempre davanti a una via tutta tigli e frutteti nascosti dalle mura alte. Stai sicuro che ti lasciava sempre davanti alla via del Faro.
Presto pensai che avevo capito pure come faceva.
Sull’isola ti guidava il profumo delle cose e la notte potevi chiudere gli occhi che ti portava il naso. Ad un certo punto della via, quasi vicino al Faro, si svolta a sinistra e, per un sentiero di campagna, con ai lati erbe selvatiche e alberi da frutta, si arrivava alla casa degli zii: più orto che casa. Tutto intorno alla casa c’erano piante di vasinicola e rosamarina, fichi e pomodori su ceste di ginestra a seccare.
Tutto il giorno parlai del faro. Per me non esisteva che quella luce che viaggiava nel buio. Una carezza segreta.
Lo nominavo senza fine al punto che zia, disperata, la sera per farmelo scordare mi portò a fare un giro per l’isola.
Procida assomigliava tanto a Napoli. Mi sembrava che era una briciola staccata della pagnotta della città in mezzo al mare. Ma solo la Napoli che odorava di mare. Quella dei pescatori, del porto, quella di piccoli fiori e vigne sotto al vulcano.