“Mi sono visibili il Cancro, l’Ariete,
e il mondo è solamente una conchiglia,
dove fa la perla
ciò di cui sono malato. […]”
V. Chlebnikov, “Mi sono visibili”
A luglio di questo anno abbiamo aperto l’Ambulatorio di Nutrizione Trotula grazie a varie stelle in costellazione fra cui due singolari famiglie, la Famiglia di Rita Romano e di Rita Abagnale ed un primario illuminato, presso il reparto di ematoncologia dell’ospedale A. Tortora di Pagani (SA).
Ai tempi in cui la medicina si serviva di alimentazione e piante per curare il malato, Trotula De Ruggiero è stata una delle prime medichesse d’Europa, esponente di primo ordine della scuola medica salernitana.
E perchè un ambulatorio al servizio dei pazienti di un reparto di ematoncologia?
Per fornire indicazioni su quanto i precedenti stili di vita hanno potuto incidere sull’insorgenza della patologia e provare a cambiarli e per invitare a considerare il cibo come la prima risorsa per il mantenimento del nostro benessere.
Dagli incontri con gli straordinari pazienti che si stanno servendo dell’ambulatorio nascono queste storie come testimonianze di umanità più che di malattia.
Racconti, parole che vogliono presentare a chi in questo progetto ci ha creduto, alcune delle persone che insieme stiamo supportando.
I nomi dei protagonisti delle storie sono naturalmente di fantasia.
Quando ci conoscemmo, una caramella all’anice era stato l’ultimo saluto.
La cercai sul tavolino accanto al letto quando tornai a salutarla la settimana dopo.
Candida Sorrentino fa la chemioterapia per un linfoblastoma mandibolare.
La prima volta che ci siamo viste era per indicarle un’alimentazione da seguire una volta uscita dall’ospedale.
Aveva perso ogni sapore raccontava con rassegnazione.
La lingua arsa impastava una saliva densa.
Da lì partì il racconto dell’inizio del dolore alla mandibola destra. Del dentista che, non comprendendone subito la causa, le scavò e limò l’osso come la zanna d’avorio di un elefante.
Le chiesi cosa mangiava, quando, con chi. Lei, che già sapeva che cattivi alimenti danno cattiva vita, rispondeva confusamente incredula e continuava a dire “..- e teniamo pure l’orto, dottoressa!”. E mentre scuoteva la testa che non si fa capace delle vicissitudini a cui si sottopone un corpo, le mani piccole e olivastre forse buone per togliere i petali marciti dai boccioli ancora freschi di rosa o per il pianoforte, si lisciavano l’una con l’altra piano. Nella luce di un mattino appena inteso attraverso la finestra sull’aiuola a prato rado.
Torno a trovarla. Senza piano alimentare, non è ancora potuta uscire dall’ospedale, quindi per i pasti ci pensa l’ospedale. E’ sopraggiunta una broncopolmonite nel frattempo. Per lei sono tutti segni avversi. Razionalmente l’unica cosa che aspetta è la morte.
Invece arrivo io con il pensiero della caramella all’anice.
Busso al citofono del reparto. “Chi è” chiedono dall’altra parte. Ecco chi è. “Chi sono?” Mi lascia sempre spiazzata questa domanda. Eppure dire” io sono” è il primo atto di coscienza. Rivelazione dell’essere.
In un ospedale non si può farla lunga, “Sono la nutrizionista”. Per oggi può bastare.
Al reparto di ematologia oncologica si accede solo con copertura per scarpe e camice. I suoi ospiti hanno le difese immunitarie basse, la terapia le rende ancora più basse. Si inizia a pensare che anche una goccia di pioggia potrebbe uccidere. Come diceva una poesia d’amore di cui non ricordo l’autore.
Ricordo che la Signora Sorrentino era nella stanza in fondo al corridoio a destra. Si, questo lo ricordo. E’ cambiata la sua compagna. Entrambe dormono. Il sonno quando si soffre non è il caso di turbare. Pare la cosa più vicina alla grazia di una pace smarrita.
Mi siedo sulla sedia accanto al letto. Le scrivo un saluto di carta. Le farà piacere sapere che sono passata. Mi poggiò sulla sedia e lei si sveglia. “Non volevo svegliarla” le sorrido. “ La avevo sentita entrare” dice. Ad un certo punto della vita, e in certi posti, si comunica con spostamenti d’aria a cui può non seguire suono.
E’ felice della visita. Mi racconta del braccio a cui arriva l’ago. Della flebo. Del medicinale “non lo sento più e ha iniziato a farmi male pure la clavicola…manco più mi posso alzare da sola”. Se non ci sono i figli o gli infermieri non se la sente di camminare per la corsia dove il mondo e un corridoio in linoleum bianco e verde.
“Non si deve abbattere, questo non la aiuterà a stare meglio” le dico in un sereno sforzo di coscienza. Si rianima un pò e risponde“ si ed io devo tornare a casa. I miei figli non possono venire tutti i giorni qua, non posso dare loro questo disturbo…ricorda noi abitiamo a più di 50 km da qui…eppure” si ferma un attimo sovrappensiero “a casa chi mi aiuta ad alzarmi…? Qua almeno ci sono le infermiere…”.
“I figli si organizzeranno” la rassicuro sperandolo, più che essendone sicura.
“I figli faranno quel che possono”,dice. Poi aggiunge tornando a quando figlia si era trovata ad occuparsi della malattia di un genitore “quello che abbiamo fatto noi per i genitori…” abbassa il capo di lato, si morde il labbro inferiore. Si intende che è così tanto che le parole non possono quantificare. Ed in effetti mi si para dinanzi l’immagine di un re seguito fino alla fine e oltre.
“Quando mio padre si ammalò lo tenni nel mio letto matrimoniale un anno intero” inizia a raccontare. “ Mio marito si spostò a dormire nel lettuccio di fronte. Papà aveva un brutto male alla prostata. Io lo facevo più forte tenendomelo accanto. Ogni notte un piccolo soffio sopra il collo. Era lui che mi diceva che c’era nel buio.”
Continua raccontando del periodo di malattia del padre “Iniziò a fare la chemioterapia ma poi seppe della cura Di Bella… volle provarla. Il medico mi consiglio di non fargli lasciare la chemio anche se iniziava quest’altra cura. Ma lui non ne volle sentire. Dovevo fargli una siringa ogni 12 ore. A volte mi svegliavo nella notte, di soprassalto pensando fosse passato il tempo della siringa. I primi due mesi andò tutto bene, poi ebbe un crollo. Non funzionò e tornammo alla terapia di prima. Ma non ci fu granchè da fare…”
Poi si ferma e aggiunge: “Durante il sonno…credetemi…mi sveglio…un soffio…lo sento ancora sul collo.” E tocca con la mano fina il punto del volto su cui sente quel soffio. La mandibola destra.
“Mio padre è ancora accanto a me. Di notte, mi saluta.” Aggiunge come dando un punto di sutura fra il suo passato ed il presente.
Le sorrisi mentre tornava lentamente da questo ricordo.
Le dissi che il suo piano alimentare sarebbe stato pronto per le dimissioni in modo da poterlo seguire a casa ed aiutare i familiari a prepararle i pasti. Era importante mantenere adeguata la glicemia e cercare di ricostruirle la flora intestinale, l’insieme dei microscopici organismi con cui da millenni conviviamo in reciporca salute e cercare di non aumentare l’infiammazione. E tutto questo poteva imparare a farlo anche con i cibi.
Le chiesi di cominciare ad evitare le caramelle.
Poggiò la testa sul cuscino e mi ringraziò. La salutai per farla riposare ancora un pò ma non avevo superato il suo letto che mi chiamò:” E dottoressa prendetela una caramella, vi prometto che non me ne faccio portare più“. La presi.
All’anice. Quella che mia nonna teneva sempre in borsa e, ringraziando e ricordandole la promessa, uscii dalla sua stanza.
Caramella all’anice nella tasca del camice. Anche mia nonna mi era ancora accanto.